Datare i reperti è forse la cosa più importante nel lavoro che svolge un archeologo. Lo scavo è a tutti gli effetti un’azione distruttiva: quando il piccone rimuove strati di terra non è più possibile riportarli al loro stato originale. Per questo è fondamentale la documentazione, la raccolta cioè di tutti i dati e di tutti i reperti per arrivare a un’interpretazione storica. La prima cosa che ogni archeologo cerca di capire, infatti, è la cronologia di quello che sta scavando.
Esistono diversi metodi per stabilire la datazione di un reperto e dunque datare anche lo strato in cui è stato trovato. In questo articolo analizziamo i metodi di datazione più usati dagli archeologi, partendo da quelli culturali per arrivare a quelli scientifici.
I metodi di datazione culturali: quante cose riescono a dire i manufatti
Mentre scava un archeologo quasi istintivamente inizia a “mettere in ordine” gli strati che porta alla luce. Applicando le regole del metodo stratigrafico gli archeologi stabiliscono come prima cosa una cronologia relativa, cioè una sequenza cronologica in cui stabiliscono quale strato si è formato prima (più antico) e quale dopo (più recente). Il passo successivo è stabilire una data precisa, cioè una cronologia assoluta, passando così dalla stratigrafia alla storia.
Il primo metodo di datazione assoluta è di tipo “culturale” e si basa sullo studio di tutti i reperti raccolti in uno strato. Gli attributi culturali di alcuni particolari reperti permettono di datarli in modo preciso. Una volta controllati tutti i reperti, l’archeologo deve individuare quelli più recenti: la regola di base è che uno strato non può essersi pienamente formato prima che sia stato prodotto il reperto più recente in esso conservato.
Cosa significa? Che se un archeologo trova una moneta del 10 d.C. in uno strato vuol dire che quest’ultimo non può essersi completamente formato prima del 10 d.C., altrimenti la moneta non sarebbe esistita. In archeologia, quindi, i reperti più recenti costituiscono una sorta di paletto per la datazione assoluta di uno strato. In gergo questo paletto si definisce terminus post quem (letteralmente la “data dopo la quale”).
I cosiddetti "reperti datanti"
Ci sono dei reperti che aiutano molto gli archeologi a stabilire una datazione assoluta perché riportano una data o l’indicazione di un arco cronologico. Si tratta di monete, iscrizioni, reperti con iconografie particolari che riportano nomi di re, imperatori, papi. A volte anche reperti cosiddetti "minori" possono riportare informazioni cronologiche: tegole o grandi vasi possono avere impressi bolli che permettono di risalire alla bottega che li ha realizzati e all’anno di produzione.
Quando forniscono una data precisa i reperti vengono definiti datanti. Reperti di questo genere si trovano negli scavi di epoche storiche, più o meno vicine a noi, caratterizzate dalla presenza di fonti scritte, come ad esempio annali reali (cioè le liste dei re), testi amministrativi di archivio, epigrafi.
Quando però non è possibile fare riferimento a una documentazione storica, di quali strumenti si avvale un archeologo per assegnare una datazione ad uno strato?
Classificazione e tipologia, il metodo più usato dagli archeologi
Quando si scavano siti di epoche o aree geografiche caratterizzate dall’assenza di fonti scritte e di reperti datanti, gli archeologi ricorrono alla classificazione e allo studio tipologico dei manufatti. La classificazione consiste nell’individuare elementi tecnici e formali ricorrenti: un vaso con la forma allungata, di grandi dimensioni, con doppie anse e un puntale alla base appartiene sicuramente alla classe delle anfore.
La tipologia individua differenze formali e stilistiche culturalmente significative: vasi con la stessa forma ma decorazioni diverse, oggetti con la stessa funzione ma con forme diverse, tecniche edilizie che impiegano materiali diversi, sono tutti tipi differenti. La caratteristica fondamentale è che ad ogni tipo deve corrispondere un ambito cronologico abbastanza definito.
Ogni manufatto può essere studiato attraverso questo metodo, ma la vera "guida" di ogni scavo archeologico è la ceramica. Si tratta del manufatto di gran lunga più abbondante e che ha subito cambiamenti tecnici e stilistici distintivi delle diverse aree geografiche e delle diverse epoche. Sono stati fatti innumerevoli studi sulle produzioni ceramiche di ogni terra e di ogni epoca e sono state realizzate delle vere e proprie sequenze cronologiche: quando gli archeologi trovano un frammento ceramico diagnostico associato a un tipo preciso è possibile dire a quale periodo esso risale e dunque stabilire il terminus post quem dello strato in cui è stato trovato.
I metodi di datazione scientifici: cos’è l’archeometria
Negli ultimi decenni ha trovato ampio sviluppo una specifica disciplina che misura le proprietà chimico-fisiche dei reperti archeologici attraverso analisi di laboratorio: si tratta dell’archeometria. Le applicazioni di questa disciplina sono molteplici a seconda di quello che si vuole sapere da un reperto: la sua cronologia, le tecniche di produzione, l’area geografica di provenienza delle materie prime. Sempre più spesso le analisi chimico-fisiche sono usate dagli archeologi per convalidare le datazioni suggerite dallo studio dei reperti, permettendo così una datazione incrociata tra i dati ottenuti con la cronologia relativa e quelli ottenuti con la cronologia assoluta.
Sono molti i metodi di analisi scientifica elaborati (o in corso di elaborazione) che trovano applicazione in archeologia e questi variano soprattutto in base al materiale di cui si compone il reperto che si intende analizzare. I metodi più usati per stabilire una cronologia assoluta sono il metodo di datazione radiometrica o radiocarbonio (C14), la dendrocronologia, la termoluminescenza. Mentre nei primi due casi sono databili tutti i reperti di natura organica (legno, ossa, conchiglie), il metodo della termoluminescenza è usato per la datazione assoluta della ceramica.