
I dazi doganali sulle importazioni vennero introdotti in Italia, un Paese nato liberoscambista, pochi anni dopo l’unificazione. La politica protezionista ebbe conseguenze molto eterogenee, favorendo alcuni settori e danneggiandone altri, ma restò in vigore per molti anni. Durante il regime fascista i dazi doganali furono ulteriormente aumentati, con l’obiettivo di sviluppare l’autarchia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, il Paese è entrato a fare parte del Mercato comune europeo, cedendo il controllo della politica doganale alle istituzioni comunitarie. Oggi l’Europa adotta una politica prevalentemente liberoscambista: ha abbattuto i dazi tra i Paesi membri, ma l'impone per l’importazione di prodotti da alcuni Paesi terzi. Tuttavia, il panorama commerciale globale è in continua evoluzione, e le recenti tensioni dopo i dazi introdotti dagli Stati Uniti di Donald Trump, recentemente sospesi per 90 giorni, e le conseguenti risposte dell'UE, potrebbero provocare un cambiamento significativo della politica doganale europea.
I dazi doganali prima e dopo l’Unità d’Italia
Prima dell’Unità d’Italia, gli Stati preunitari adottavano politiche doganali differenti. Alcuni Stati, come il Regno di Sardegna, erano liberoscambisti e facevano pagare tariffe molto basse sulle merci importate, mentre altri, come il Regno delle Due Sicilie e lo Stato pontificio, applicavano dazi elevati. Nel 1847 il papa Pio IX propose di istituire una Lega doganale tra gli Stati della Penisola, abbattendo i dazi interni sul modello di una simile lega esistente in Germania, ma il progetto non andò in porto.

Dopo l’Unità d’Italia, il sistema liberoscambista fu esteso a tutto il territorio nazionale. Il libero scambio era sostenuto da Cavour e dalla Destra storica, la corrente politica che governò il Paese dopo l’Unità, secondo la quale l’abbattimento dei dazi era indispensabile per lo sviluppo della Penisola.
Il protezionismo in Italia
Il libero scambio entrò in crisi negli anni ’70 dell’Ottocento: nel 1873 in tutto il mondo occidentale iniziò una seria crisi economica, che impose di rivedere le politiche commerciali; inoltre, nel 1876 in Italia andò al potere la Sinistra storica, che sul libero scambio aveva idee diverse da quelle della Destra. Per queste ragioni, tra gli anni ’70 e ’80 nel Paese furono introdotti i dazi doganali.
La prima misura protezionista, ancora parziale, fu emanata nel 1878 e la seconda, più estesa, nel 1887, con entrata in vigore dal primo gennaio 1888. La tariffa prevedeva dazi elevati su molti prodotti industriali e agricoli. Le conseguenze furono in parte positive, in parte negative: la tariffa agevolò le industrie, che erano ancora deboli e non sempre potevano sostenere la concorrenza dei Paesi più avanzati, ma danneggiò gli agricoltori, che esportavano all’estero una parte dei loro prodotti. Pertanto, molti studiosi ritengono che il protezionismo rese più acuto il divario economico tra Nord e Sud, favorendo le industrie settentrionali e danneggiando l’agricoltura del Mezzogiorno.
Inoltre, le tariffe doganali provocarono una dura reazione da parte di altri Paesi, in particolare della Francia, che impose dazi di rappresaglia danneggiando i produttori di vino, olio, agrumi e altri prodotti agricoli. La guerra commerciale era motivata anche da contrasti politici: il governo italiano era profondamente irritato per l'occupazione francese della Tunisia, avvenuta nel 1881, e l’anno successivo aveva aderito alla Triplice Alleanza con la Germania e con l’Austria. La guerra commerciale italo-francese terminò nel 1892, ma nel nostro Paese il protezionismo restò in vigore anche negli anni seguenti.

I dazi durante il fascismo: l’autarchia
Il regime fascista, asceso al potere nel 1922, adottò una politica protezionista ancora più restrittiva di quella precedente. Si consideri che, in genere, i regimi nazionalisti sono più portati a imporre tariffe doganali, perché vogliono sviluppare la produzione interna a discapito degli scambi internazionali, anche in vista di possibili guerre.
Nella seconda metà degli anni ’30 il regime fascista si propose di raggiungere l'autarchia, in base alla quale nel Paese si dovevano usare solo prodotti nazionali. La scelta era dovuta soprattutto a ragioni politiche, perché, dopo l’invasione dell’Etiopia, avvenuta nel 1935, la Società delle nazioni (una sorta di ONU dell’epoca) aveva imposto delle sanzioni economiche all’Italia, vietando il commercio di alcuni beni. Le sanzioni, in realtà, restarono in vigore per poco tempo, ma il regime, per ragioni di propaganda, replicò con l’introduzione della politica autarchica che prevedeva un ulteriore aumento dei dazi doganali.
Gli effetti furono per lo più negativi, perché fecero lievitare i costi delle materie prime, delle quali il territorio italiano è povero, costringendo le aziende a pagare prezzi più alti. Inoltre, alcuni prodotti importati furono sostituiti con beni che non avevano la stessa qualità. Per esempio, al posto del tè, che era diventato molto costoso, fu messo in commercio il karkadè, un infuso ricavato da una pianta coltivata nelle colonie italiane d’Africa, che però non aveva il medesimo sapore. Al posto del caffè, invece, si diffusero surrogati a base di cicoria e altre piante, poco apprezzati dai consumatori.

Più in generale, l’autarchia provocò una sensibile riduzione degli scambi commerciali con l’estero, che però non furono annullati del tutto.
Il secondo dopoguerra e il Mercato comune europeo
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia repubblicana ha gradualmente adottato il libero scambio. Nel 1948 il Paese aderì al GATT, l’Accordo generale su tariffe e sul commercio che mirava a ridurre le barriere doganali, e negli anni successivi sottoscrisse diversi accordi con altri Paesi dell’Europa occidentale, riducendo progressivamente i dazi. Nel 1969 le tariffe tra i Paesi della Comunità economica europea e di altre istituzioni del continente sono state eliminate.
Dal 1993 è in vigore il Mercato comune europeo (Mec), che prevede la libera circolazione non solo delle merci, ma anche delle persone, dei capitali e dei servizi. Oggi il Mec è composto da 31 membri: i 27 Paesi dell’UE, insieme a Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein.

A causa dell’integrazione europea, la politica doganale non è più gestita in ambito nazionale, ma nell’ambito delle istituzioni comunitarie. Oggi i Paesi del Mec applicano una politica di moderato libero scambio: oltre ad aver abbattuto i dazi interni, hanno sottoscritto accordi commerciali con vari Paesi terzi, riducendo le tariffe. Il libero scambio, però, non è totale e sono previsti dazi nei confronti di alcuni Paesi per determinate categorie merceologiche.